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Piero della Francesca, Polittico di Sant’Antonio

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Nel 1993 il Polittico è stato restaurato con il contributo della Fondazione Arte.

Nell’occasione del polittico di Perugia, assegnabile forse ad uno dei passaggi di Piero sulla strada da Borgo San Sepolcro a Roma, troppe imposizioni materiali limitarono ancora una volta, anzi più che mai, le intenzioni dell’artista che si vide di certo offrir la tavola già apparecchiata nella incorniciatura di gotico tardo, già messa ad oro dalla mano di qualche operaio umbro. Pare evidente che le monache di Sant’Antonio desiderassero una macchina votiva ispirata alla ripartizione che aveva tenuto l’Angelico dipingendo per la stessa città, più di vent’anni prima, il polittico per la cappella di san Nicola, in San Domenico; e che si raccomandassero persino per una somiglianza nella disposizione dei santi.

 

Piero si acconciò dunque a costruire alla meglio l’altare di Perugia, con umiltà che ci sorprenderebbe di meno in un Matteo da Gualdo o in un Niccolò da Foligno. Apparentemente, codesti santi appartengono alla ben nota famiglia di Piero: i cordigli di Sant’Antonio e di San Francesco cadono ancora con lo stesso bianco rigore che nel polittico di San Sepolcro; la Santa Elisabetta, con quelle sue spalle a cupola, è della famiglia voluminosa della Maddalena di Arezzo, il Battista, con quella sua canna verticalissima, perfettamente normale all’indice teso, e la frontalità invincibile della testa, è di una intenzione simile all’altra che ci apparve nel Cristo risorto.

Eppure, meglio osservando, vedesi essersi già perduto alquanto della suprema bellezza teorematica che si rivelava al sommo nel secondo ordine degli affreschi aretini. Persino il trono su cui siede il gruppo divino è un brano architettonico alquanto meno imponente e integro che i vani di Arezzo; e da quelle luci di nuova unzione sui rosoni del semicatino, da quella patina ombrosa sui braccioli ornatissimi, gli viene la vecchia intimità di una sedia vescovile ridotta ormai, per lo struscio dei fedeli, a mobile casalingo” (Roberto Longhi, Piero della Francesca, Milano 1946, pp. 85-87).

 

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